Published online by Cambridge University Press: 14 June 2016
Il dibattito sul rapporto fra proporzionalismo come sistema elettorale all'interno dei partiti e proliferazione di correnti (o fazioni) all'interno degli stessi partiti ha toccato finora, come era inevitabile e giusto, una gamma di argomenti molto piú vasta della semplice influenza di un tipo di sistema elettorale sulla formazione della leadership nei partiti. Ma le prime differenze sono subito chiare. Infatti, mentre Sartori imputa sostanzialmente i mali del nostro sistema politico proprio all−incapacità dei due partiti piú grossi della coalizione di centro-sinistra di eleggere una leadership solida e in grado di imporre le scelte governative alle frazioni di minoranza, Passigli sembra sottolineare piuttosto le caratteristiche di funzionalità del sottosistema di frazioni per il nostro sistema politico che rischierebbe di crollare se esse venissero bruscamente cancellate, e Giovanna Zincone rileva a sua volta come le frazioni dato (e non concesso2 a mio avviso) che abbiano aumentato la conflittualità intrapartitica, purtuttavia « hanno ridotto la conflittualità interpartitica, non in termini di competizione elettorale, ma sotto il profilo dell−immagine che il partito offre agli aderenti dei partiti avversari ».
1. Il dibattito è stato aperto da Sartori, G., Proporzionalismo frazionismo e crisi dei partiti, e continuato da Passigli, S., Proporzionalismo, frazionismo e crisi dei partiti: quid prior?, e da Zincone, G., Accesso autonomo alle risorse: le determinanti del frazionismo. Tutti gli interventi sono stati pubblicati nella « Rivista Italiana di Scienza Politica », rispettivamente I (1971), pp. 629–655; II (1972), pp. 125-138, e pp. 139–160.Google Scholar
2. Zincone, G., op. cit. , p. 143.Google Scholar
3. In questa sede è forse opportuno segnalare che si va facendo strada l'opinione che il ruolo finora assegnato dagli studiosi ai partiti nel sistema politico è troppo lontano dalla realtà e che molte funzioni teoricamente di competenza dei partiti vengono svolte da altre strutture, alle quali bisognerebbe quindi rivolgere l'attenzione per comprendere meglio il funzionamento dei sistemi politici. Per un acuto contributo ad una visione piú equilibrata del ruolo dei partiti si vedano King, A., Political Parties in Western Democracies , in « Polity », II (1969), pp. 11–141; e Rose, R., The Variability of Party Government: A Theoretical and Empirical Critique, in « Political Studies », XVII (1969), pp. 413–445.Google Scholar
4. Spreafico, A. e Cazzola, F., Correnti di partito e processi di identificazione , in « Il Politico », XXXV (1970), p. 714, corsivo mio. Gli stessi dati sono stati analizzati, con diversa prospettiva, da Stern, A. J., Tarrow, S. e Williams, M. F., Factions and Opinion Groups in European Mass Parties, in « Comparative Politics », III (1971), pp. 529-559, che affermano recisamente « Whatever else they are, the Socialist party's factions must be defined as true opinion groups ordered along a left-right continuum », p. 549.Google Scholar
5. Passigli, S., op. cit. , p. 131.Google Scholar
6. Zincone, G., op. cit. , p. 148.Google Scholar
7. Ed è anche per la carenza di dati empirici, del tipo proposto da Sartori, che le osservazioni di Zariski, R., The Italian Socialist Party: A Case Study in Factional Conflict , in « American Political Science Review », LVI (1962), pp. 372–390, e Intra-Party Conflict in a Dominant Party: The Experience of Italian Christian Democracy, in « Journal of Politics », XXVII (1965), pp. 3-34, appaiono largamente superate.Google Scholar
8. Galli, G., Il governo difficile, Bologna, Il Mulino, 1972, cap. II « La fase di strutturazione ».Google Scholar
9. Fra gli altri Zariski, R., The Italian Socialist Party, cit., nota che le frazioni incominciarono a manifestare apertamente il conflitto interno a partire dal 1956, p. 382, e che nel periodo dal 1959 al 1961 vi fu, tuttavia, un alto grado di coesione e di continuità tanto che « nonostante il monopolio da parte degli autonomisti degli organi esecutivi nazionali, cambiò di mano il controllo di solo 10 delle 102 federazioni », p. 380.Google Scholar
10. Galli, G. e Facchi, P., La sinistra democristiana. Storia e ideologia, Milano, Feltrinelli, 1962, entrambe le citazioni sono a p. 145. La prima citazione è tratta da un articolo di Boiardi, F., La DC e le sue correnti, in « Problemi del Socialismo », II (1959), pp. 189–205.Google Scholar
11. Si veda la tabella di Sartori, G., op. cit. , p. 650.Google Scholar
12. A meno che non si sia capovolta la tendenza individuata da La Palombara, J., Decline of Ideology: A Dissent and an Interpretation , in « American Political Science Review », LX (1966), pp. 5–16, tr. it. Il declino delle ideologie, in Partiti e partecipazione politica in Italia, a cura di Sivini, G., Milano, Giuffré, 1969.Google Scholar
13. All'unico congresso unitario, Roma ottobre 1968, le correnti furono cinque: Rinnovamento (13,2%), Autonomia (34,3%), Riscossa (33,6%), Impegno (5,2%) e Sinistra (7,3%), ma Rinnovamento era composta nella quasi totalità da socialdemocratici.Google Scholar
14. La recente decisione del CN del PSI di tenere un congresso non a mozioni — sulla votazione per le quali le frazioni si mantengono di solito compatte e sulla cui base vengono poi attribuiti i seggi al CN — ma a tesi che permettono invece il formarsi di una maggioranza e di una minoranza dopo un ampio dibattito politico, è un indice del fatto che la frammentazione interna viene considerata un male che si può aggravare.Google Scholar
15. Frazioni che comprendono rispettivamente il 18, 38, 20 e 20% degli iscritti, mentre i giolittiani rappresentano il restante 4% (tutte queste percentuali sono variamente contestate). Come ulteriore prova del fatto che le frazioni organizzate sono quattro, ricordiamo che, la segreteria essendo nelle mani di Mancini, le altre tre frazioni hanno un vice-segretario ciascuna: Craxi per gli autonomisti, Giovanni Mosca per i demartiniani e Codignola per i lombardiani.Google Scholar
16. Zincone, G., op. cit. , p. 148, corsivo mio.Google Scholar
17. Sartori, G., op. cit. , p. 653.Google Scholar
18. Passigli, S., op. cit. , p. 133.Google Scholar
19. Ibidem, pp. 133-134. Passigli sembra accettare per l'Italia il modello della democrazia consociazionale, proposto da Lijphart (cfr. soprattutto Typologies of Democratic Systems , in « Comparative Political Studies », I (1968), pp. 3–44) e variamente riformulato, cfr. da ultimo l'applicazione al caso austriaco effettuata da G. B. Powell, Social Fragmentation and Political Hostility, Stanford, Stanford University Press, 1970) trascurando il fatto che l'accordo iniziale fra le élites avviene, come afferma esplicitamente Lijphart, come fra diplomatici plenipotenziari che trattano in segretezza, condizione impossibile nel contesto italiano di completa mobilitazione sociale. Inoltre, questo accordo spesso comporta la stagnazione ed è dubbio che un sistema politico possa sopravvivere a lungo, nell'attuale periodo, ad un processo di sviluppo zero, tanto piú quando dovrebbe supplire alla non elevata legittimità con un buon rendimento.Google Scholar
20. Notiamo, anzitutto, che sembra ormai assodato che i gruppi di pressione e i loro rappresentanti sono in grado di adattarsi con sufficiente acume e notevole rapidità ai mutamenti che intervengono nei processi decisionali (la letteratura rilevante si trova in Pasquino, G., I gruppi di pressione , in « Rivista Italiana di Scienza Politica », II (1972), pp. 169–180), lo stesso si può presumere dei gruppi che ruotano intorno alle frazioni, anche se è corretto il suggerimento di Zariski a « non trascurare il fatto che se le frazioni intrapartitiche possono essere indissolubilmente legate a particolari gruppi di pressione, molto spesso non lo sono » e a non considerarle « semplici propaggini dell'attività dei gruppi di pressione dentro i partiti », Party Factions and Comparative Politics: Some Preliminary Observations, in « Midwest Journal of Political Science », IV (1960), pp. 27–51.Google Scholar
21. Nel periodo del centro-sinistra vi è stata una combinazione dei due elementi: la DC ha malgovernato in quanto destinava le sue energie a placare gli accresciuti conflitti interni; il PSI non governava in quanto la sua classe dirigente era incapace di elaborare gli strumenti necessari alle riforme e di mobilitare il necessario sostegno popolare.Google Scholar
22. Questa posizione si trova espressa chiaramente in Galli, G., Il difficile governo, cit. La documentazione sulle mancate riforme economiche si trova in Forte, F., La congiuntura in Italia, 1961-1965, Torino, Einaudi, 1966.Google Scholar
23. Una prima valutazione dell'opposizione parlamentare del PCI dalla I alla IV legislatura si trova in Cazzola, F., Consenso e opposizione nel Parlamento italiano , in « Rivista Italiana di Scienza Politica », II (1972), pp. 71–96. Il modello cui ci si può utilmente riferire per analizzare l'espansione burocratico-organizzativa del PCI è quello ottimamente delineato da Roth, G., The Social Democrats in Imperial Germany, Totowa, Bedminster Press, 1963, tr. it. I socialdemocratici nella Germania imperiale, Bologna, Il Mulino, 1971. L'interpretazione cui aderisco è quella di Galli, G., Il PCI rivisitato, in « Il Mulino », XX (1971), pp. 25–52.Google Scholar
24. La Repubblica di Weimar durò 13 anni e cadde per la pressione congiunta delle riparazioni di guerra imposte dal trattato di Versailles e della crisi economica internazionale; la IV Repubblica ebbe pressappoco la stessa durata e crollò per la somma di due « carichi » internazionali: l'Indocina e l'Algeria.Google Scholar
25. Aderisco alla posizione di Sartori che « il frazionismo opportunistico, o di convenienza, è indotto, e quindi modificabile modificando le condizioni che lo rendono rimunerativo », op. cit. , p. 639.Google Scholar
26. Ibidem, p. 640.Google Scholar
27. D'Amato, L., Il voto di preferenza in Italia (1946-1963), Milano, Giuffré, 1964, p. 9.Google Scholar
28. Ibidem, p. 13; vedi anche la tabella riassuntiva a, p. 44.Google Scholar
29. Vale la pena segnalare un'interessante applicazione del voto di preferenza illustrato da Pedersen, M. N., Preferential Voting in Denmark: The Voters' Influence on the Election of Folketing Candidates , in Scandinavian Political Studies, Helsinki, Academic Bookstore, 1966, vol. 1, pp. 167–187, che sottolinea lo scarso uso che gli elettori danesi fanno della possibilità di sovvertire le scelte dei partiti (non completamente attribuibile a un idem sentire, probabilmente).Google Scholar
30. D'Amato, L., op. cit. , p. 74. Anche Zariski nel suo Intra-Party Conflict in a Dominant Party, cit., avverte il rapporto fra voto di preferenza e correnti, ma non giudica il problema degno di approfondimento.Google Scholar
31. Analisi che, invece, esistono per altri paesi e lasciano intuire una notevole autonomia delle organizzazioni locali. Cfr. Ranney, A., Pathways to Parliament. Candidate Selection in Britain, Madison, University of Wisconsin Press, 1965; Kaufmann, K., Kohl, H. e Molt, P., Die Auswahl der Bundestagskandidaten 1957 in zwei Bundesländern, Köln-Berlin, Kiepenheuer und Witsch, 1961; e Rush, M., The Selection of Parliamentary Candidates, London, Nelson, 1959. Risponde solo parzialmente alle domande se e come la scelta dei candidati venga determinata da che tipo di competizione intrapartitica o da eventuali calcoli sulle prospettive di apporti di voti il saggio di Valen, H., The Recruitment of Parliamentary Nominees in Norway, in Scandinavian Political Studies, Helsinki, Academic Bookstore, 1966, vol. 1, pp. 121–166.Google Scholar
32. Il tema è stato ampiamente dibattuto altrove, purtroppo non nella chiave che interessa in questa sede. Per tutti rimando al recente documentatissimo volume di Crespi, R., Lo Stato deve pagare i partiti?, Firenze, Sansoni e Centro « Luigi Einaudi », 1971.Google Scholar
33. La recente disputa sull'introduzione o meno della TV a colori e sul sistema PAL o SECAM è un buon esempio. Non sembra casuale che il ministro delle Poste e Telecomunicazioni e il direttore generale della RAI-TV siano entrambi fanfaniani.Google Scholar
34. Un buon esempio di analisi condotta con la teoria dei giochi, rilevante anche per il contesto italiano, sulle frazioni del partito Liberal-Democratico giapponese si trova in Leiserson, M., Factions and Coalitions in One-Party Japan: An Interpretation Based on the Theory of Games , in « American Political Science Review », LXII (1968), pp. 770–787.Google Scholar
35. Quest'ipotesi sembra peraltro contraddetta dalla recente disfatta elettorale del Movimento Politico dei Lavoratori; si direbbe cioè che, poiché l'uscita dei gruppi dissidenti non è in grado di punire la DC, le frazioni di maggioranza non abbiano nessun interesse a favorire le frazioni marginali (anche se di principii, o forse per questo). Le interviste condotte da Zuckerman, A., Hierarchal Social Division as a Determinant of Political Groups: Factions in the Italian Christian Democrat Party, relazione presentata al Congresso dell'American Political Science Association, Chicago, 7-11 settembre 1971, sembrano far ritenere che le frazioni solo raramente sono composte da semplici iscritti, ma per lo piú da leaders e attivisti, forse una spiegazione della limitata presa elettorale del MPL.Google Scholar